Alberto Cancian
il seminatore di tessere di luce

“Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ma essa non cadde, perché era fondata sulla roccia” Vangelo di Matteo 7, 21-29

Niente colline questa volta. Niente ordinati filari di basse viti e interi declivi ricoperti di alberi d’olivo.

E’ una terra “indefinita” quella di Zevio, o meglio ancora di Campagnola di Zevio, così vicina alla città ma anche alla “bassa”; sospesa tra estese aree industriali e ancor più estese pianure coltivate a riso, mele e una volta anche a tabacco. Secondo un’etimologia da pochi accettata, ma che a me è piaciuta tantissimo proprio per questo, il paese di Zevio deriverebbe il suo toponimo da un antico devius con il significato di “paese fuori della via” dove per via si intende la via per antonomasia della nostra Verona… La via Postumia.

Nell’atrio della fabbrica, dal sapore di “bottega artigianale evoluta”, vengo accolto da una bellissima vecchia foto in bianco e nero. Mi ricorda quasi una di quelle immagini che stavo ad osservare per ore quando leggevo appassionatamente le storie del Far West americano. Una serie di uomini quasi tutti baffuti, maniche delle camicie arrotolate fino ai gomiti, gilet di cuoio, pantaloni di jeans o qualche cosa di simile, alcuni con un cappello sulla testa ma tutti con in mano almeno un attrezzo che però a guardarlo bene assomiglia più a una carabina per la caccia al bisonte.

E poi lui… Il signore che troneggia in mezzo alla fila. Cappello nero alla cow boy, giacca sbottonata e messa di lato come dovesse estratte in tutta fretta la cara vecchia colt; catena dell’orologio ben in vista e sguardo deciso a squadrare la macchina fotografica… Credo una delle prime!

“E’ il nonno di mio nonno…” mi incalza da dietro Alberto ancora prima di salutarmi.

“La foto è stata scattata a San Pietroburgo in un palazzo dello Zar di Russia…”.

“Alla faccia del caro vecchio West!” penso io.

Ci accomodiamo su un bellissimo tavolo chiaro, ovviamente decorato con un minuto e delicatissimo terrazzo alla veneziana, dove Alberto mi spiega con passione che la sua è una delle tante famiglie – i Crovato, gli Asin, i Cancian – che dal Friuli ancora in pieno Medioevo  si erano spostate verso Venezia per creare e realizzare i pavimenti delle più belle case patrizie della Dominante.

Una “scuola” vera e propria come quella dei Maestri Comacini che dalle loro valli lombarde erano stati chiamati a Roma ad abbellire le grandiose basiliche cristiane sorte sulle vestigia pagane.

“E’ un’arte antichissima quella del terrazzo o se vuoi quella dell’opus sectile come la chiamavano i Romani” mi suggerisce Alberto. “Un’arte difficile e un mestiere duro… Molto duro soprattutto ai tempi di mio nonno e di mio padre. Un’arte antica perché i primi pavimenti di questo tipo non erano niente altro che dei semplici battuti di terra dove venivano messi in malta dei cocci di vasellame rotto o degli scarti di marmo o di pietra… Non si buttava via niente. Un lavoro duro perché bisogna stare ancora adesso chinati sul pavimento per ore e ore al freddo pungente o al caldo soffocante a sistemare le piccole tessere di marmo colorato; bisogna battere e ribattere la superficie per renderla liscia come uno specchio; il sudore ti entra negli occhi come la terribile polvere di marmo nei polmoni… Bisogna esser mia normali!”.

Nel marchio della ditta vedo due uomini, vestiti come quelli della vecchia foto, che imbracciano un lungo manico di legno alla base del quale sta’ una grossa pietra rettangolare; sono nell’atto di muoverla circolarmente sul terreno.

“Eccolo li…” sembra quasi incupirsi Alberto. “Quell’attrezzo li è proprio l’orso o meglio la galera! L’orso perché quando si sfregava sul pavimento per lucidarlo el sigava come una bestia inferocita… La galera perché lavorarci per ore e ore ininterrottamente era un vero e proprio supplizio degno del peggior galeotto! Per fortuna oggi ci sono le levigatrici elettriche!”.

Non solo un lavoro duro ma anche di grande pazienza.

A partire dalla scelta delle diverse pezzature di marmo colorato o di altra pietra dura che andranno a comporre le tessere del terrazzo. Poi c’è il disegno, il motivo ornamentale – sia esso geometrico o floreale– che precedentemente deve essere sviluppato in dime e sagome che più sono grandi e più necessitano di tempo e precisione. Servono tre o addirittura quattro persone per posare e levigare in un giorno trenta metri quadrati di un “normale” terrazzo alla veneziana.

“E pensa che abbiamo seminato dei saloni enormi di centinaia e centinaia di metri quadrati… Siamo stati a lavorare dappertutto in Russia, in Germania, in America ma anche qui in Italia nei più bei negozi e show room di Milano o in certe lussuosissime ville affacciate sul nostro Lago di Garda!”.

“Qual’é il segreto di quest’opera che viene così da lontano e che sembra non stancare mai?” gli chiedo. “Vedi… “mi dice indicandomi alcune grandi foto appese nel laboratorio “Questi pavimenti in terrazzo provengono dal Palazzo ducale di Venezia e hanno settecento anni… A Venezia tutto si muove ma questo tipo di pavimento sa piegarsi, adeguarsi senza mai spezzarsi… E’ una gran bella qualità! Questo invece lo trovi nell’ex negozio Olivetti sempre a Venezia ed è stato realizzato su un disegno di Carlo Scarpa; è talmente moderno che oggi il negozio è occupato dal Fai che si è guardato bene dal toglierlo! L ’opus sectile, il terrazzo è così… E’ sempre moderno, si abbina a qualsiasi tipo di arredamento, dona luce alle stanze, resiste per tantissimi anni, è unico, uno diverso dall’altro, riscalda, è ordinato e geometrico ma allo stesso tempo sa dare tante emozioni…”.

Avrei voluto chiedere ad Alberto quale fosse il filo rosso che unisce questo tipo di pavimento alla cultura e alla sacralità del tappeto nel mondo islamico e orientale, ma il telefono e le persone che lo aspettano mi convincono a lasciarlo libero il più presto possibile.

“Guardo sempre per terra!” quasi mi fulmina con l’ultima frase.

Ma non capisco se lo faccia per controllare la qualità delle sue realizzazioni, per ribadire di essere una persona che ama il suo lavoro nonostante tutte le difficoltà o magari lui guarda sempre terra per trarre ispirazione dalla sua terra… Una terra coltivata a mele, riso e una volta anche a tabacco.

Italo Martinelli

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