Simone Fumagalli o della straordinaria eccellenza veronese di un gesto quotidiano

“Ah! Come è dolce il sapore del caffè! Più dolce di mille baci, più dolce di un vino moscato...”

“La cantata del caffè” (1734) Johan Sebastian Bach

Mezzogiorno, dell’ultimo giorno di un Inverno posto a cavallo tra due anni che ricorderemo a lungo… Forse per sempre. Mentre scendo dall’auto, parcheggiata lungo il bordo di Via Merighi – una stretta strada incastrata tra il Canale Camuzzoni e la Porta del Palio – dal vicino campanile di San Zeno le campane suonano a stormo seguite dai canonici dodici rintocchi che annunciano l’arrivo del Mezzodì.
Quasi in simultanea, alle squille di San Zeno, fanno eco i rintocchi provenienti da altri campanili della città. Ma cosa c’entrano le campane a festa a metà di un giorno “qualunque”? E cosa c’entra una rinomatissima torrefazione di pregiate miscele di caffè a pochi passi dal centro di Verona? Una tra le città più fieramente “padane” di questa terra al Settentrione d’Italia…
Andiamo con calma e vediamo di sistemare le cose.

 

Partiamo dalle campane. La storia vuole che quelle di “Mezzogiorno” siano suonate per ricordare all’intera Cristianità la grande vittoria navale ottenuta contro i Turchi avvenuta nel 1517 nelle acque di Lepanto. Ma la storia vuole anche che, circa cento anni prima, Papa Callisto Terzo avesse chiesto di battere la “campana di Mezzogiorno” in tutte le chiese per invitare alla preghiera in favore dei Cristiani a quel tempo “impegnati” nel terribile assedio della città di Belgrado…

Anche in questo caso, ovviamente, c’entravano i Turchi!

E qui invece, finalmente qualcuno dirà, arriva il caffè.

Infatti, sempre secondo la storia o meglio in questo caso le “storie”, il caffè giunse per la prima volta in Europa – assieme al “cappuccino” e al “croissant” guarda caso fatto proprio a forma di mezza luna – giusto al termine di un’altra terribile battaglia campale dal cui esito, si racconta, sia dipesa l’intera futura storia del nostro Continente…

Questa volta siamo a Vienna e la data è quella dell’undici Settembre (sic!) del 1683.

Per farla breve, si narra che, una volta sbaragliato l’esercito del Gran Visir Mustafa Paschia gli assediati viennesi furono lasciati liberi di sciamare oltre le mura e di scorrazzare – leggi razziare – il campo nemico all’interno del quale si raccontava si trovassero “ricchezze” di ogni tipo: cavalli, cammelli, dromedari, spade, pugnali, cannoni, tappeti, brocche gemmate, forzieri carichi d’oro…

Persino degli strani sacchi contenenti degli sconosciuti e stranissimi chicchi scurissimi!

“Sistemata” la prima domanda passiamo alla seconda. Per farlo, salgo i pochi gradini di accesso di questa palazzina anni Cinquanta non dopo avere dato un’occhiata all’insegna di metallo posta sul cancelletto d’entrata che non ha certo timore di mostrare a tutti la sua “età”: parlo sia dell’insegna sia del cancelletto… Torrefazione Caffè Giamaica.

Sulla soglia, ad accogliermi, una signora gentile rigorosamente tutta vestita di nero con una cuffia per contenere i capelli che subito la “qualifica” come persona importante all’interno di questo stranissimo “stabilimento” in centro città. Vengo fatto accomodare in una stanza dipinta per metà da una fascia dal colore verde stranissimo ma allo stesso tempo bellissimo. Da alcuni grossi sacchi di iuta accatastati ai muri e che presumo essere piuttosto pesanti, “occhieggiano” inaspettatamente nomi di “favolosi” paesi lontani… Giamaica, Brasile, Haiti, Guatemala, Indonesia…

I sacchi sembrano delle cartoline di una “volta”, stampigliate con timbri postali imbevuti nell’inchiostro colorato. Mi guardo intorno… Diversi tipi di “vecchie” caffettiere, macinini di ogni tipo, sessole dal mestolo di acciaio, tamisi di varie dimensioni, tazzine di ogni forma e misura e in centro, troneggiante, un macchinario rosso vermiglio fatto a torre che intuisco essere il cuore pulsante di questo atelier… Tutto qui sembra essere stato immobilizzato non solo dal tempo ma dall’aroma, dal profumo carico, denso, pregnante persino “violento” – del caffè.

Dalla stanza vicina, giungono delle voci che vanno e vengono coperte dal rumore prodotto dai chicchi di caffè già torrefatto che rotolano e si ammassano all’interno di alcuni alti “silos”…

Le botti di stagionatura del caffè.

Intuisco che si parla di “miscele”, di gusti particolarissimi, di torrefazioni “classiche”, di tazzine di caffè da sorseggiare religiosamente come si stesse bevendo un calice di rinomato Amarone.

E’ un ragazzo “tosto” Simone Fumagalli, il torrefattore del Laboratorio; lo si capisce dallo sguardo penetrante e dall’eloquio aperto e confidenziale ma allo stesso tempo geloso dei propri “segreti”.

Gli chiedo “Che lavoro è quello del torrefattore?” ben sapendo che di certo non si tratta di un semplice lavoro e nemmeno di un comune mestiere – che già dal punto di vista etimologico è tutta un’altra cosa – ma quasi certamente di una vera e propria arte.

Torrefare…” mi risponde spigliato “Deriva dal verbo latino torrefacere che è un termine che abbracciava diversi tipi di cottura, dal grigliare, all’arrostire all’abbrustolire… Essenzialmente vuol dire fare essiccare alla fiamma un frutto, un alimento, un seme; è molto affine al torrido e alla lavorazione dei metalli. Il fuoco è l’elemento decisivo!”.

I chicchi…” prosegue “Arrivano qui crudi, di colore chiaro ma hanno già in sé una loro storia straordinaria fatta di acqua, di terra, di nuvole di umidità tropicale, di mani sapienti che li hanno coltivati, selezionati in un certo qual modo già amati...”.

Mi dice che una volta importati – da mercati lontanissimi uno dall’altro – le drupe vengono “torrefatte” cioè, come abbiamo detto, esposte alla fiamma ed è qui che il torrefattore smette i panni del “manager commerciale” per assumere quelli dell’artista, del capomastro, del costruttore di cattedrali, dell’alchimista, dell’inarrivabile Ermete Trismegisto…

Mezzo grado di calore in più nella Vittoria, il macchinario al quale siamo adesso appoggiati, e tutto il lavoro di interi mesi se non anni se ne va letteralmente in fumo… Mezzo grado in meno ed anziché ottenere un gusto inconfondibile e riconoscibile tra mille ne esce fuori un prodotto sbagliato, invendibile ma soprattutto indecente… Si perché qui alla Torrefazione Giamaica mi hanno insegnato che prima di tutto viene il prodotto… Qui si coltiva prima di tutto la dignità del caffè! Dall’origine del chicco sino alle labbra del consumatore che si appoggiano alla tazzina. Per noi innovare vuol dire rimanere stabili nella tradizione…”.

Simone frequenta queste stanze di appartamento adibite ad antro alchemico per la torrefazione del caffè, dall’età di 13 anni. I suoi maestri sono stati Gianni Frasi, vero “mahatma” dell’azienda che a sua volta aveva attinto – per diventare quello che è stato fino a soli due anni fa quando è venuto improvvisamente a mancare – da Franco Frasi il calciatore dell’Hellas il cui primo maestro in verità era stato Giovanni Erbisti. Siamo nel primo Dopoguerra. “Giovanni Erbisti…” puntualizza Simone “E’ il vero fondatore della Torrefazione Giamaica, perché per primo riuscì a convincere Prando a tostare, nel retrobottega, i chicchi di caffè crudo mentre in precedenza la tostatura era una pratica di lavorazione povera destinata alle ghiande, all’orzo ai fichi… Non per niente tutti sono capaci di tostare ma pochissimi sanno torrefare!”.

Il discorso si amplia a dismisura mentre tutte le signore, prima alacremente affaccendate nelle varie operazioni, salutano cortesemente e se ne vanno.

Parliamo a lungo di quanto prezioso sia il caffè – forse se non più e quanto lo zafferano o il metallo raro da mettere nei nostri telefonini – e di come sia in pratica coltivato a tutte le latitudini anche le più impensate; di quanti interessi stiano dietro al commercio del caffè e di come spesso la produzione della materia prima sia motivo di vile sfruttamento o di enorme arricchimento.

Simone si sposta con naturalezza inaspettata dai porti dell’Estremo Oriente a quelli olandesi, dalla Borsa americana o inglese ai mercati tedeschi o africani “Si perché...” mi dice “Sono tantissimi e tutti fortissimi i players internazionali che ruotano attorno a questa piccola drupa che vale quanto un diamante…”.

Mi lascio andare ad alcune domande “banali” del tipo “Ma allora il caffè fa bene o fa male?”, “Tu quanti caffè bevi al giorno?” mentre mi astengo dal chiedere all’artista torrefattore che cosa ne pensi del caffè in capsule e dell’enorme business prodotto dall’impronunciabile ditta che si è appropriata di uno dei termini che – dopo il nostro venetissimo “ciao” – è divenuto sinonimo di italianità… Espresso! Gli risparmio una dolorosa stilettata anche se sono certo Simone mi avrebbe risposto da par suo dicendomi che una cosa è un Tintoretto un’altra è la crosta dipinta da sua zia…

Ci avviamo a salutarci – senza prima però esserci scambiati la promessa di rivederci per approfondire questa emozione straordinaria – Simone il “mago” mi offre una tazzina di caffè… Del suo caffè.

Il rito di preparazione ha dell’incredibile… Le prime gocce di essenza scurissima calano lentamente dal beccuccio di una Faema cromata e perfetta come una Harley Davidson d’altri tempi.

Guai solo a pensare di chiedere dello zucchero…

Il gusto al palato è a dir poco inebriante e più di ogni cosa rimane a lungo in bocca ma forse ancora più nella mente… Addirittura nel cuore.

 

Italo Martinelli